L'io e l'Essere 

Tratto dal libro "Oltre il silenzio" - Edizioni Mediterranee

 

Ci sono dei pensatori che tentano di spiegare la realtà con gli elementi che hanno a disposizione, o meglio con le idee che la loro visione parziale suggerisce. Ne risultano teorie non solo antropomorfiche ma che nemmeno sono l'espressione della possibilità dell'uomo di pensare in termini generali.

Uno di questi esempi è dato dall'affermazione che il destino dell'uomo, quale essere spirituale, lo assoggetta ad un divenire senza fine. L'essere spirituale  continuerebbe in eterno un processo di acquisizione. 

Tutto questo, poi, non prevederebbe un abbandono della Terra in senso ultra-fisico; cioè la Terra, sì, sarebbe abbandonata, ma l'essere continuerebbe, in altre dimensioni spirituali, una vita di relazione basata sulla percezione, sulla sembianza della realtà. L'essere spirituale sarebbe un uomo divinizzato, idealizzato, e nulla più.      

 

E' chiaro che una simile affermazione deriva dall'incapacità di trascendere la propria condizione umana per accedere anche solo a quella intuizione di cui certi uomini si servono per scrivere dei racconti di fantasia. Pensare che il destino dell'essere spirituale lo releghi in una condizione in fondo antropomorfa, significa non solo non intuire la realtà ma addirittura difettare di immaginazione.   

 

Certo, io non sono qua a raccontarvi cose immaginarie, però se per farvi capire quello che voglio dire devo fare appello alla vostra  fantasia, ebbene considerate pure quello che dico una favola, ma comprendete!

 

La difficoltà maggiore a capire il destino, la futura condizione di esistenza dell'essere spirituale, è data dal non riuscire a immaginare come egli trascorra la sua esistenza, che cosa faccia. Se poi, come noi facciamo, si afferma che l'essere, sperimentata, per manifestarla,  una coscienza relativa, si identifica nella coscienza assoluta nella quale è abbattuta ogni separazione, ogni limitazione, ogni successione, e gode della plenitudine assoluta, spesso si sente chiedere: e poi?, proprio quale involontaria dimostrazione della incapacità di superare il modo umano di concepire la realtà. Si può parlare di un « poi» in un simile stato di coscienza? Un «poi»  e un « dove « derivano da una condizione di esistenza limitata in senso spaziale e in senso temporale; da una abitudine a percepire  la realtà in successione e in separazione. 

 

Ora, invece, per avvicinarsi a capire un simile stato di coscienza, bisogna riuscire a immaginare uno stato di superamento della separatività, cioè una coscienza che abbraccia tutto quanto esiste, perciò un superamento dell'io e del non io e quindi il superamento del modo di percepire basato sulla separatività. 

Non solo: tutto ciò, pur dando l'idea di una coscienza che non conosce limiti in senso spaziale, non dà ancora l'idea di un superamento dei limiti in senso temporale, che invece c'è nella coscienza assoluta. Se tutto quanto esiste mutasse nel tempo, una coscienza che abbracciasse tutto quanto esiste solo in senso di estensione, di quantità, sarebbe pur sempre limitata in senso di successione temporale, perciò non sarebbe ancora assoluta. Mentre, per essere tale, la coscienza deve comprendere anche le mutazioni.

 

Che cosa sono le mutazioni? Realtà diverse. Che cos'è l'io o un essere? La coscienza limitata ad una parte, o, più precisamente, sentire la realtà in termini di parte. Che cos'è un essere rispetto ad un altro? Un modo diverso di sentire la realtà in termini di parte. E che cos'è un io, una coscienza, un essere, nella successione? Ancora un modo diverso di sentire la realtà in termini di parte. Non fa differenza: sono tutte realtà diverse. La definizione della differenza dei sentire di un momento, appartenenti ad esseri diversi, calza, è la stessa, per la differenza di sentire di momenti diversi appartenenti ad uno stesso essere. Si tratta di modi diversi di sentire la realtà in termini di parte.     

Allora, che cosa sono gli esseri? 

Se il mio sentire di ora è diverso dal vostro di ora allo stesso modo di come è diverso dal mio sentire di un altro momento, che cosa è che mi fa dire « il mio sentire «? Certo il fatto che io l'ho vissuto. E che cosa è che mi fa dire « io l'ho vissuto «? Certo la memoria,  ossia la capacità di conservare in sé, per poter evocare, immagini di cose viste, suoni uditi, sentimenti, stati d'animo provati, idee acquisite. Ma altrettanto certo è che il ricordo, per quanto vivo possa essere, è un'ombra, uno spettro; non è la realtà; non è tornare a vivere l'esperienza.

 

Il ricordo è memoria di un presente che fu. E quel che fu, per avere una esatta collocazione cronologica, deve essere riferito nella memoria a fatti certamente datati; altrimenti non è collocabile, altrimenti è un « non ora « che non si distingue da tutti gli altri « non ora « che la memoria riesce a ricordare. Questo perché la coscienza è sempre al presente. 

Una coscienza che sia al tempo passato o futuro è inconcepibile: passato o futuro rispetto a che cosa? Al proprio essere. Ma siccome la coscienza è l'essere, è assurdo per misurare la propria distanza, separazione, disidentificazione, eccentricità, prendere quale punto di riferimento se stessi: il valore sarà sempre zero. Perciò la coscienza è sempre al presente, sicché il proprio essere è sempre solo quello del momento presente. Ogni momento siamo un essere diverso e, infine, quale reale condizione di esistenza, siamo un essere totale.

 

Sicché il mio sentire che fu, non mi appartiene  più di quanto non mi appartenga il sentire di un mio simile. Difatti, se perdessi la memoria, in forza di quale altra facoltà potrei dare la paternità ad un sentire? Certamente nessuna. D'altra parte, la memoria non è determinante nell'esistenza del sentire. 

Se si togliesse la facoltà di ricordare, non cesserebbe il sentire: non si avrebbe più cognizione del tempo, si avrebbe cognizione che l'esistenza, la coscienza, è un continuo presente. 

Il sentire di ogni istante - o meglio innumerevoli sentire che creano gli istanti - sono completi in se stessi; ciascuno afferma, manifesta una realtà. Sicché quel tenue e lacunoso filo che è la memoria, su cui si intreccia ogni rapporto con gli altri; che ci ricorda chi sono, che cosa ci debbono, cosa possiamo pretendere; che volutamente si smarrisce quando ci torna utile fingere di averlo smarrito; quel filo senza del quale non sappiamo chi siamo; qual è il nostro nome, e su cui fondiamo tutta la nostra vita di uomini, se si spezzasse, pur così determinante, non ci toglierebbe la cosa più importante del nostro esistere che si identifica con l'esistenza stessa: il sentirsi vivi, la coscienza di esistere.  

 

Ma pure, questo sentire di istanti è legato in una catena, non solo per effetto di quel fragile ed evanescente filo che è la memoria; al di là di ciò che possiamo ricordare e del potere condizionante del ricordo, gli innumerevoli sentire con la memoria  creano gli istanti si chiamano, si susseguono, si legano in virtù di qualcosa che non può essere apparente e caduco perché è la forza di coesione che crea l'essere, che fa di tante parti un sol tutto. Che cos'è che tiene uniti gli atomi della materia se non una forza che promana dall'atomo stesso? 

In modo analogo, la forza che unisce gli atomi di sentire che compongono la coscienza, scaturisce dalla natura stessa del sentire. E dalla natura stessa del sentire dipende l'ordine secondo il quale i sentire sono uniti, e quindi la successione secondo cui si manifestano; o meglio, sembrano manifestarsi in quella successione perché, in quell'ordine, sono concatenati.      

 

Dalla natura stessa del sentire relativo nasce l'ordine secondo cui esso è disposto e quindi secondo cui è disposto tutto quanto esiste: infatti le situazioni del mondo fisico, emotivo e intellettivo sono strettamente unite ad un relativo sentire, tanto che all'apparenza è impossibile dire se siano quelle situazioni ad essere come sono perché discendono da quel sentire, oppure se il sentire è quello che è in conseguenza di come sono le situazioni fisiche, emotive e mentali. 

 

In effetti c'è un legame secondo il quale le coscienze del momento, i sentire, si legano, ed è il legame logico.    

Paragoniamo il sentire iniziale di  coscienza di una incarnazione ad una equazione impostata: i sentire successivi, quelli in senso lato, logicamente legati all'iniziale, sono rappresentati dai vari passaggi che conducono alla soluzione dell'equazione. La soluzione rappresenta la caduta di una limitazione del sentire e l'ampliamento della coscienza. 

Lo stesso legame logico esiste fra l'impostazione di una equazione e l'impostazione delle equazioni successive. Ne risulta un sistema di equazioni in cui tante sono le incognite quante le equazioni, perciò un sistema risolvibile. Ossia tutte le limitazioni cadono, tutte le incognite sono conosciute.      

 

Un'altra domanda che frequentemente viene fatta è "che necessità ci sia che ogni essere nasca da Dio e a Dio ritorni, cioè che compia tutta una trafila così complessa e, in fondo, faticosa". Prima di rispondere non si può fare a meno di dire che se la faticosa trafila è il prezzo per dare all'essere la coscienza assoluta, è molto più quello che si ha di quello che si paga. 

Tuttavia una simile domanda è frutto di una errata concezione della realtà perché non tiene conto del fatto che al di là di ciò che appare, nella successione e nella separazione - cioè nell'illusorio divenire - nessuno si stacca da Dio o a Dio ritorna o giunge: tutto è sempre in Lui.

Se mai la domanda giusta è « che funzione hanno gli esseri nell'esistenza divina «, e, più giusta ancora, « qual è la funzione della coscienza del sentire relativo, nella coscienza assoluta «. Rispondo che la coscienza assoluta è una nel senso di unica e unitaria, però non nel senso di avente una sola qualità, anzi in questo senso è molteplice e poliedrica. L'Unità è realizzata con la comunione degli elementi, cioè in uno stato di esistenza in cui, per esempio, la vita che un uomo vive in successione è sentita simultaneamente nel non tempo,  ossia in qualcosa che non ha né prima né dopo, né perciò durata, ed è sentita simultaneamente alla vita di tutti gli esseri.    

 

Tutto questo non significa che la coscienza assoluta sia uno stato d'essere frazionario, di confusione, nel quale tutto

si accavalli e confonda. Già la coscienza umana - che pure è relativa - è unitaria. Ogni momento del sentire che origina gli esseri, è presente nella coscienza assoluta identicamente a come gli esseri lo sentono. 

Non potrebbe essere diversamente da così, dato che il sentire che origina  gli esseri è lo stesso sentire contenuto nella coscienza assoluta. Non è uno identico, è lo stesso. Se tale sentire non esistesse nella coscienza assoluta non esisterebbero né gli esseri, né la coscienza assoluta. 

Dunque l'esistenza degli esseri appartiene all'esistenza di Dio e la ragione della loro esistenza risiede nella completezza, nell'assolutezza della Realtà divina. Il sentire di coscienza che ciascun essere manifesta è un elemento costituente della coscienza assoluta, dove esiste in un eterno presente, al di là dell'illusorio manifestarsi in successione temporale. Ciascun sentire è un momento, un elemento dell'essere relativo, come ciascun essere è un elemento dell'organico Essere assoluto.  

 

Questa concezione della Realtà esistente, rendendo partecipe della Divinità tutto quanto esiste, spiega come niente e nessuno possa essere considerato reietto, escluso, perduto. Tuttavia, mentre conforta con la certezza che nessuno può perdersi definitivamente - anzi ognuno è destinato fatalmente alla massima gloria dell'esistenza assoluta - può indurre a credere che non abbia alcun valore cercare di mutare gli avvenimenti, migliorare le situazioni e le persone essendo già tutto esistente al di là del tempo e della volontà dell'uomo. 

 

Una simile errata conclusione è evitata tenendo presente che, siccome tutto quanto è percepito da ciascun essere, costituisce uno stimolo alla sua evoluzione, alla costituzione e rivelazione della sua coscienza - ed anche se la percezione è comune a più esseri rappresenta per ciascuno un'esperienza personale - ne risulta che tutto quanto esiste è come se esistesse solo ed esclusivamente per ciascun essere, solo per la costituzione-rivelazione della sua coscienza, come se ciascun essere fosse al centro di uno spettacolo vitale concepito solo per lui ed egli fosse l'unico essere ad esistere. Mentre, in realtà, innumerevoli sono gli esseri, pure essendo ciascuno unico e irripetibile. Perciò ciascun essere - essendo come se fosse l'unico ad  esistere - è come se fosse l'unico a partecipare, manifestare, far esistere la coscienza assoluta.  

 

Allo stesso modo siccome la realtà colta da ciascun essere è percepita in successione, in divenire, è come se la realtà fosse tale, cioè stesse ora sviluppandosi, prendendo corpo, mentre in effetti la Realtà esiste già nella sua completezza. Tuttavia non potrebbe esistere se non si manifestasse così come ciascun essere la percepisce e la manifesta. Perciò nel momento in cui il sentire è sentito è come se fosse il momento in cui prende esistenza; da qui l'importanza della propria esistenza e della propria volontà.   

 

Ciononostante, per la vostra mentalità di uomini inseriti in una realtà di  apparente divenire, in cui impera il principio di causa e d'effetto differito, resta difficile capire che senso abbia, per esempio, aiutare un vostro simile se egli, per la legge karmica, non abbia via di uscita; oppure lottare per far volgere gli eventi in un certo modo quando, nel piano divino, fossero stabiliti in modo diverso. 

Una simile incomprensione ha le sue radici in una coscienza della realtà che è già molto se riesce a stimolare l'uomo ad agire con la promessa di un risultato; una concezione della realtà tutta esteriore; mentre in effetti quello che è considerato mondo esterno è importante nella misura in cui si trasfonde in esperienza interiore; sicché il dare o il fare non sono tanto importanti per la riuscita quanto per il proposito, quanto per l'intenzione del soggetto.

 

Guardiamo più nel dettaglio l'articolazione di tale verità.

Esiste una  storia generale dell'umanità che è data dalla cronologia degli eventi umani di carattere politico, sociale, economico, religioso e via dicendo. 

Tale storia è immutabile, non può essere variata; in essa si intessono le storie individuali, personali degli uomini. Storie particolari, che possono avere - sia pure in misura limitata - varianti. 

Non si deve credere che laddove la storia particolare può essere variata - cioè laddove esiste una possibilità effettiva di scelta - tutto sia lasciato nella nebbia dell'indefinito. Tutt'altro: nell'Eterno Presente delle situazioni cosmiche esistono già definite tutte le alternative alla scelta possibile. Se, ad esempio, due sono le possibilità che la scelta offre, due sono i rami della storia tracciati. 

Quindi, non indefinizione, ma doppia definizione. 

Non si deve neppure credere che la storia generale sia più importante delle particolari; infatti da un certo punto di vista non è che la risultante di quelle, perciò da quel punto di vista sembrerebbe subordinata ad esse. 

Ma così non è, tant'è vero che la storia generale è costituita in funzione delle storie particolari, ma non in dipendenza di quelle. Cioè la storia generale è costituita in funzione delle esperienze evolutive dei singoli individui e quindi in funzione delle esperienze che essi debbono compiere; ossia non è l'uomo che segue un destino già tracciato, è l'inverso: il tracciato è quello che è per offrire all'uomo le esperienze che vuole e che deve avere.     

 

Tuttavia, laddove le scelte individuali andrebbero ad influire nella storia generale - cioè la storia generale diventerebbe dipendente dalla particolare -, perché ciò non avvenga il problema è risolto attraverso alla « variante «, alla doppia definizione degli avvenimenti: l'una è quella che gli altri vedono e che per loro costituisce un passaggio obbligato - la storia generale -; l'altra è quella vissuta personalmente quale frutto di una possibilità di scelta che si discosta da quello che gli altri debbono necessariamente vedere e vivere e che costituisce la libertà del singolo nella necessità della collettività.

 

In altre parole, allorché la scelta di un singolo si ingerisse nella vita degli altri in modo contrario alla loro necessità evolutiva, la scelta - attraverso ad una variante - sarebbe vissuta da lui solo, proprio per evitare l'interferenza.  

 

Supponiamo che un capo di stato sia posto di fronte al dilemma di porre il suo popolo in guerra o no. Chiaramente la guerra è un evento generale  e quindi invariabile, perciò se il capo di stato avesse la libertà personale di sottrarsi alla guerra - cioè la possibilità di non dichiararla per vivere in pace -, a scelta operata lui solo vivrebbe la pace, mentre tutto il suo  popolo vivrebbe la guerra. L'esempio, ovviamente, è radicalizzato, portato agli estremi limiti, paradossale; però spero che se anche è irreale, serva a farvi capire la realtà.

Già sento qualcuno di voi concludere: « Se la guerra è un avvenimento predestinato, è inutile pregare o manifestare perché non avvenga «. Ed eccoci tornati al nocciolo del problema.

 

Secondo voi, che il capo di stato firmi o non firmi la dichiarazione di guerra, è lo stesso? Spero che riusciate a capire che se anche la guerra deve scoppiare, è estremamente importante che il capo di stato scelga la pace: l'atto investe la sua persona, la sua intenzione e quindi la sua comprensione,  la sua evoluzione, la sua coscienza - che si tratta di avere o non avere, che c'è o non c'è. Vi pare poco?      

Certo, ai fini collettivi la decisione del singolo non può mutare ciò che gli altri debbono avere o non avere, ma al fine  individuale quanta importanza ha che si faccia o non si faccia una cosa indipendentemente da quello che sarà il risultato!       

 

Se pensate che sia inutile cercare di  aiutare i vostri simili perché comunque voi facciate le cose andranno come è scritto che vadano, vi dico che in ogni caso una cosa importantissima verrà a mancare: quella per la quale tutto esiste e vive, per la quale si succedono i giorni, le vite, le storie: la vostra coscienza, quella coscienza che è la manifestazione di un Dio nell'essere e in forza della quale esistiamo e per mezzo di cui nulla, infine, può rimanerci estraneo, dandoci essa la plenitudine assoluta.

 

Sicché, pregate o manifestate per la pace; anche se non potete cambiare le cose che non possono essere cambiate, potrete cambiare voi stessi e con voi stessi il mondo, la realtà nella quale vivete. Se anche il vostro operare altruistico non raggiungerà lo scopo prefissato, voi, operando, vi porrete dalla parte giusta. E  questo vi pare poco o inutile?

 

 

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