La ragione del dolore

(Estratto dal libro "Per un mondo migliore" - Edizioni Mediterranee)

Affanno afflizione amarezza angustia ansietà angoscia, corruccio crepacuore, dispiacere duolo disperazione, inquietudine, malinconia macerazione mestizia, oppressione, patema patimento, pena pianto, rammarico rodimento, sofferenza spina squarcio schianto spasimo strazio supplizio, tristezza tribolazione travaglio tortura tormento: dolore.

Chi è quell'essere felice che può domandarsi: « Cos'è il dolore? ».
No!, non è acqua quella che sostanzia gli oceani, i poli, e rende fertile la terra: sono lacrime versate dal dolore.
Vi guardo, creature d'ogni specie, razza, ceto ed età: siete tutte segnate e dominate dal dolore. Vi guardo cercare affannosamente il piacere ed affannosamente trovare la sofferenza.

Il dolore non è come il sole, che splende in egual misura sui giusti e sugli ingiusti; sembra accanirsi con i buoni, gli inermi, lasciando perciò ‑in grande perplessità chi soffre e chi è spettatore della sofferenza, che in ciò vedono una ingiustizia.
Infatti il dolore - che sia sensazione fisica o sentimento appare assolutamente dannoso e tanto negativo che l'uomo ne fa la maledizione di Dio.
L'esistenza del dolore è, al tempo stesso, lacerante esperienza e, per gli esseri dotati di raziocinio, paurosa minaccia nonché causa di angosciosi interrogativi.

Generalmente l'uomo accetta piú l'esistenza della morte che quella del dolore. Ed è giusto. Perché mai temere la morte tanto da sognare l'immortalità? Che sciocchezza! L'uomo che fosse immortale sarebbe il piú disgraziato degli esseri. La morte è la piú grande benedizione: libera l'umanità dalla tirannia dei potenti, dalla noia dei sapienti, dal peso dei notabili.

Pensate un attimo a che cosa sarebbe l'umanità se nessun uomo del passato fosse morto, specialmente i potenti. Tutti vorrebbero continuare a pesare sulla storia. Ve la immaginate che Babilonia? E quanto è comodo, invece, poterli mettere in disparte, obliarli, seppellirli nel silenzio.
Tu che temi la morte, non ti rendi conto quanto le devi? Vorresti continuare a vivere? Ebbene, se anche tu fermassi il decadere del tuo corpo, sei soddisfatto di te stesso come sei? O forse vorresti continuare a vivere migliorandoti via via, trasformandoti? Ma trasformarsi è morire, morire a quello che si è. E la morte è solo trasformazione.

Fortunatamente si muore di continuo. E se la morte è la regina della terra - in quanto nessun essere vivente ad essa sfugge - il dolore ne è il re.
Vivere è avere un retaggio di dolore.

Non è pessimismo il mio, è constatazione di un fatto estremamente naturale. Riconoscerlo noti è soffocare la speranza. E', assurdo, per non dire mostruoso, sperare di cambiare l'ordine naturale senza tener conto delle ragioni che lo determinano.
Questo è il punto: la ragione del dolore.
Perché mai tanto dolore affligge ogni essere vivente? E fa dubitare i raziocinanti che la vita sia un dono; e fa pensare piuttosto che introduca in un luogo di pena dove, per qualche oscura ragione, ognuno debba soffrire.
E se fosse - come nella catena alimentare della natura ogni creatura si ciba ed è cibo di altre - che le sensazioni, le emozioni, il dolore degli esseri viventi costituissero alimento per invisibili entità ultraumane? E se il dolore - che è tormento di ogni essere carnale - fosse il piacere di entità cosmiche immateriali, che si adoperassero in ogni modo per far soffrire i viventi e così trovare, esse, piú godimento? In tal modo gli esseri viventi tutti - e piú d'ogni altro l'uomo - sarebbero come animali da allevamento, fatti vivere e soffrire per il piacere di invisibili, potenti, sovrastanti, crudeli parassiti.

Questi ed altri sono i dubbi che la dilaniante crudeltà del dolore fa sorgere in chi cerca una ragione di esso.
Il credente, di fronte allo spettacolo del dolore, conosce il dubbio. Chi soffre perde la fede. Nei momenti di grande dolore anche la piú ferrea delle convinzioni spirituali, vacilla.
« Padre, perché mi hai abbandonato? » si chiese lo stesso Cristo all'acme della sofferenza.
Il dubbio che il dolore suscita nel credente si chiama « timore di aver offeso la Maestà divina » ed è intendere il dolore quale castigo.
Ma non in tutti i credenti il dolore evoca sensi di colpa; a molti fa pensare d'essere vittime di ingiustizia ed allora, spesso, diventa ribellione. « Guai a ribellarsi nel dolore! » dicono i padri spirituali.

Io, senza avere la pretesa d'esservi guida, vi dico: ribellatevi pure! Il dolore non è una cosa piacevole. E' ufficio di ogni uomo essere forte, ed è ufficio dell'uomo forte resistere al dolore. Ma non sentitevi in colpa se vi manca la rassegnazione, se non sapete accettarlo come se fosse un piacere. No!, non tento di mettere d'accordo Dio e il dolore dicendovi che è l'uomo l'artefice della propria sofferenza.
E’ un Dio di crudeltà quello che toglie il figlio alla madre, che lungamente lascia le Sue creature nei tormenti tanto da far loro invocare la morte?  E' un Dio spietato quello che fa arrancare i Suoi figli, trascinare fra mille patimenti, e rimane muto alle loro invocazioni disperate? Il peggiore degli uomini talvolta sarebbe piú pietoso.
E' un Dio impotente quello che, invocato, implorato, non dà le poche ore di sollievo che una semplice, insensibile pillola può dare? Perché Dio, nella Sua incommensurabile perfezione, ha creato il dolore? E se non lo ha voluto o lo vuole Lui, perché lo permette?
« Perché mi è successo questo? Perché devo soffrire? », si domanda il sofferente. Tutti vorrebbero conoscere il perché del loro dolore. Esistono tante risposte quanti sono quelli che patiscono. E ne esiste una che le riassume tutte: l'uomo soffre perché deve superare l'io personale ed egoistico.

Questa è la risposta. Il resto è dettaglio con poca importanza. Non è tanto un tipo di azione che determina l'effetto, quanto l'intenzione. Quindi non serve conoscere il dettaglio: conoscete voi stessi, le vostre intenzioni, e saprete il perché della vostra sofferenza.
Quante volte abbiamo ripetuto che non si tratta di sapere, ma di « essere ».

Non sempre e non necessariamente chi compie eccessi dettati dal suo orgoglio, rinasce cieco. Quando si soffre - cioè si subisce l'effetto karmico - si sta seguendo la « via dell'azione ». E' tardi per riflettere; a quel punto non c'è che il fatto che fa soffrire, vissuto, a poter dare una data maturazione che manca e mancava all'atto in cui si è determinato il karma di sofferenza.
Serve riflettere prima, nella vita di tutti i giorni; porre attenzione ai vostri rapporti con gli altri; vivere con la vostra sensibilità e la vostra considerazione una vita in cui gli altri non siano relegati al solo ruolo di comparsa, in cui vi avviate a superare l'io personale ed egoistico. Questo è il solo modo di risparmiarvi sofferenza.

Certo è che per il fatto stesso che il dolore esista, è da Dio voluto, ricade su di Lui. Ma sarebbe un Dio estremamente crudele quello che condannasse al dolore altri restandosene ben al di fuori, nella beatitudine del Suo Olimpo, a guardare chi soffre.
Tutto quanto esiste - per esistere - deve essere « sentito », ed il modo in cui ciascun essere lo « sente » è il modo attraverso al quale lo « sente » Dio; perciò è il modo attraverso al quale esiste.

Attenti a quello che ho detto.
Il dolore fa parte di una dualità della quale - saremmo tentati di dire se non temessimo di essere retorici - Dio stesso ne soffre e ne gioisce. Certo è che nulla di ciò che esiste, in senso lato, anche soggettivo - a cominciare dalle sensazioni per finire al sentire divino -, esisterebbe se non fosse in Dio, pur essendo Dio tutt'altro dal particolare.

Ma una domanda ricorre in chi riflette sul dolore e cioè se Dio avrebbe potuto evitare di creare la sofferenza, per dirla in termini di creazione. Una tale domanda rientra nel quesito piú ampio e generale, cioè: se le cose tutte avrebbero potuto essere diverse da come sono congegnate. Ed io rispondo di no. Vi rispondo con una asserzione che può essere accettata solo per fede. D'altra parte sarebbe impossibile constatare la spiegazione con la sola mente umana.

A voi che non potete tanto, quando soffrite dico: « Non ringraziate Dio per la sofferenza, né maleditelo. Quando soffrite pensate che non è tanto Dio a mandarvi quelle pene, quanto Dio a trasformare quel dolore in un balsamo per il vostro essere, il vostro esistere. Dio che non condanna né si vendica, Dio che con quel mezzo, senza alternative, vi riscatta da una vita senza coscienza, vi richiama a partecipare alla Sua vera natura.
Nel momento che richiamate su di voi il dolore e poi soffrite, sappiate che altro mezzo non v'era per condurvi innanzi d'un passo ».

Forse il dolore perde il suo sapore di maledizione ed appare meno crudele se visto in una luce diversa che libera chi soffre dall'idea di patire una punizione divina, che non lo fa sentire in colpa se non riesce ad accettare la sofferenza e che, soprattutto, fa del dolore uno strumento dell'amore divino, un mezzo per farci partecipi dell'esistenza di Dio.

Sono consapevole che quanto dico può essere recepito piú da chi è spettatore della sofferenza che da chi soffre. Chi patisce non intende ragioni, se non quella che può dare termine al suo soffrire. Ed è giusto che sia cosí.
Ma nell'ora della disperazione, quando senti di non farcela con le tue sole forze e ti volgi attorno, forse senza speranza, quanta gioia e sollievo ti dà la mano di chi ti aiuta!
Ebbene, se ti sembra bello e giusto avere trovato soccorso, perché tu pure non soccorri? E se non soffri, ma il dolore per te rappresenta una paurosa minaccia che ti paralizza e speri di non trovarlo, ti dico: « Vana è la tua speranza, prima o poi ti toccherà di patire ». 

Perciò non sprecare le tue energie a sperare che non ti tocchi, ma impiegale a capire chi soffre. Se poi puoi capire, senza averle provate, quanto gravose e dolorose siano le vicissitudini dei piú, perché non ti adoperi per alleviare anche in minima parte il peso di quelle? Se puoi capire che sia giusto e bello che ogni uomo non viva solo per se stesso, ma concepisca e viva la sua vita nella solidarietà con i propri simili, pronto a sostenere la parte piú umile nella scala sociale, pronto a dare anche se non ha ricevuto, come facente parte di una sola, grande famiglia, allora perché pensi solo a te stesso e aspiri a posizioni di preminenza e prima di dare - se dai - fai il bilancio di cosa hai avuto e frapponi mille condizioni al tuo dare, finanche esigere che chi ha bisogno risponda al tuo ideale di bisognoso o addirittura ti sia simpatico?

Se puoi capire che sia giusto e bello che la società non sia un meccanismo senza calore umano in cui le istituzioni hanno perduto di vista il fine, lo scopo per cui sono state create - che é quello di aiutare gli uomini -, perché nulla fai di ciò che tu puoi fare per riscaldare i rapporti con i tuoi simili, anche semplicemente cercandoli, intrattenendoti con loro senza un tuo scopo egoistico? Perché invece fuggi chi non ti è in qualche modo utile e fai di tutto per liberarti della sua compagnia come se fosse una calamità?

Certo l'ideale sarebbe che fossi tu ad avere l'iniziativa, tu ad operare una siffatta società! Ma già tanto sarebbe che tu considerassi chi ti avvicina cosí come vorresti essere considerato.
Questo è quello che il dolore ti indirizza a farti comprendere, ad insegnarti; ma non già come un fatto di conoscenza, un patrimonio della mente, bensí come un'intima trasformazione: un essere nuovo che in tal modo sente e perciò opera, ancorché perdesse o perda il ricordo dell'esperienza avuta.

Oh dolore, primo alimento della paura! Che cosa non si fa per sottrarsi al tuo abbraccio! Sei tu che rendi sgradite certe esperienze, tu che muovi gli esseri viventi per un verso anziché per l'altro. Sarebbe forse temuta la fame se non fosse dolorosa? E chi intraprenderebbe l'odissea che comporta lo sfamarsi se il digiuno fosse piacevole? Dunque tu, dolore, condizioni le esperienze degli esseri viventi e al tempo stesso li muovi da un venefico, mortale ristagno.

Ebbene, se nelle cose che posso spiegare, tu, dolore, mi appari utile, la stessa utilità deve esserci laddove non arrivo ad afferrare la ragione della tua esistenza. In effetti tu sei il termine di una primordiale dualità, senza la quale nulla vi sarebbe di ciò che è; tu, per la tua stessa natura inviso e rifuggito da coloro che non esisterebbero e cesserebbero di esistere se non ti avessero conosciuto e non continuassero a conoscerti; tu, motore primo del divenire!
Ma dunque, se allora il tuo esistere è vitale, rifuggirti, ribellarsi alla tua opprimente presenza è un errore? Se quale termine di una dualità che dà vita ed evoluzione, tu, dolore, sei provvidenziale, perché mai ribellarsi al tuo straziante dominio? Giusto parrebbe invece supinamente subirti. Sí, è vero: il dolore è una macerazione insostituibile, ma la sua funzione è anche quella di far reagire, imprecare, rompere le situazioni spiritualmente cristallizzate, indurre a ricercare, a chiedersi: « Perché? », a diventare strumenti di speranza e di gioia!

L'esistenza del dolore poggia su precise ragioni, quanto meno su quella di spingere gli uomini a serrarsi, a colláborare, a lavorare uniti per cancellarlo dalla tetra. Realizzandosi ciò, l'importante tappa raggiunta non sarebbe tanto l'assenza di dolore, quanto l'unione fraterna degli esseri.
Guai a chi passivamente subisse il dolore! Lo svuoterebbe di gran parte del suo significato. Perciò, fratelli che soffrite, imprecate, maledite, cercate, chiedetevi perché. Cosí facendo fate quello che il dolore deve farvi fare! Ma non identificatevi con il vostro dolore. Voi siete molto di piú.

Non lasciate che il dolore occupi tutti voi stessi e la vostra vita, divenga l'unico scopo di essa e vi paralizzi. Pensate che non vi è mandato per mettervi alla prova o che so io, ma che voi stessi l'avete richiamato, anche se al momento non ricordate e non capite perché.

Forse, se pensate che voi stessi siete la ragione del vostro soffrire, vi sarà piú facile reagire, ritrovare la serenità. Ma soprattutto ricordate che al di fuori della dualità basilare di cui il dolore .è un elemento, ciò che sembra crudeltà è supremo, reale Amore che attraverso alle lezioni della vita cosí ci parla:

« Figlio mio, non ostinarti a cercare la felicità dove non l'ho posta. Essa non è nel possesso dei beni materiali, nell'appagamento dei sensi, nell'esaltazione del tuo io o nella condiscendenza che tu puoi avere da parte dei tuoi simili. Io solo sono la vera beatitudine.
Il mondo dei fenomeni in cui ti muovi ed agisci non deve essere lo scopo della tua vita, ma solo un mezzo che ti conduce a me, perché io solo sono la tua vera esistenza, la tua vera essenza.
Per quanto tu sia debole, insufficiente e misero, per quanto abbietto tu sia giudicato o tu sia, ricordati: io ti amo, perché io solo sono il vero amore.
Cercami e non sarai deluso. Trovami e non conoscerai mai piú il dolore ».

                                                                                                                                                                             KEMPIS